Nato a Messina il 9 febbraio 1903, negli anni venti Giuseppe Migneco si trasferì a Milano, dove prese parte al movimento di Corrente e dove rimase fino alla morte, avvenuta fra il 27 e il 28 febbraio 1997. Su Migneco molto, e da parte di molti, è stato scritto. Critici di professione ma anche poeti e uomini di lettere, da Quasimodo a Sciascia, ne hanno a più riprese messa in luce la fondamentale vena espressionistica, sempre presente anche là dove il realismo a cui la sua pittura sembra ispirarsi si manifesta con i contorni più netti. Tale componente realistica della pittura di Migneco è stata ricondotta talora a un più ampio contesto storico, a una scelta di campo, culturale o, se vogliamo, schiettamente ideologica, che portava a identificare le ragioni del realismo con quelle dell’impegno e della denuncia sociale. Lo stesso artista sembrò in qualche occasione avvalorare in parte questa tesi: con l’autoironia di cui era capace (come chiunque sia capace di autentica ironia), scrisse una volta a un amico, compagno di scelte insieme artistiche e politico-ideologiche nel senso di quello che veniva definito allora ‘realismo socialista’, rimproverandolo, in modo più o meno scherzoso, di riuscire molto meglio di lui a seguirne i dettami.​ In realtà , al di là di suggestioni legate a motivi contingenti, un certo realismo sembra essere riconducibile, in Migneco, a una sua vena profonda di tipo umanistico, nel senso che il soggetto umano appare, nella sua opera, motivo centrale e irrinunciabile, anche quando non è presente in modo diretto, come nella natura morta e nel paesaggio (un genere, quest’ultimo, che non per caso Migneco ha coltivato poco), essendosi comunque trasfuso chiaramente nelle cose inanimate, che solo da tale intrusione neppure troppo discreta traggono alimento e spessore. Non vi è dunque alcuna contraddizione, in Migneco, fra il suo espressionismo terrestre e materico, legato anche nelle modalità espressive alla concretezza aspra del vivere e, insieme, trattenuto nei termini di una compostezza formale di tipo classico, e un realismo che si presenta essenzialmente nella forma di un lucido disincanto, di un oggettivismo capace di restituire persone, animali, cose, e il dolore e la fatica, a una loro essenzialità ancestrale, con atteggiamento emozionalmente partecipe e intellettualmente distaccato, lontano da ogni facile sentimentalismo. Un artista, dunque, in un certo senso, in bilico, Migneco, costantemente animato da una tensione che lo portò, verso la fine degli anni Trenta, nel periodo di “Correnteâ€, a riallacciarsi a van Gogh, rivisitandone la serpentina in chiave accentuatamente introspettiva, e che ancora tra i settanta e gli ottanta ne animò l’ultima stagione pittorica, tarda e tuttavia sorprendentemente aperta a nuove soluzioni, sia nelle tematiche che sul piano formale, tanto da far pensare a una vera e propria svolta. Al verde e al giallo ocra degli anni giovanili e alla più variegata tavolozza dell’età matura, subentravano ora tinte acide, dal rosso al nero passando per il viola e la vasta gamma dei blu. Smarrita nella solitudine degli spazi vuoti o, al contrario, nel groviglio anonimizzante dei corpi, la figura umana, pur sempre oggetto privilegiato della ricerca dell’artista, sembrava perdere tuttavia quella sorta di cosmica centralità che le era stata fino a quel momento attribuita: schiacciata dal peso di una minaccia indecifrabile e al tempo stesso corrosa al proprio interno da un sentore di disfacimento. In realtà anche in tale occasione Migneco non stava facendo che ciò che aveva sempre fatto, cercando, sperimentatore autentico benché poco incline a programmatici sperimentalismi di scuola, i mezzi più adeguati a esprimere ciò che ancora una volta sentiva di dover esprimere, nel modo più sintetico possibile, con vigore e leggerezza. Vigore, essenzialità , leggerezza: sono questi, in fondo, i tratti più tipici dell’artista Giuseppe Migneco.